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La situazione in Siria: Israele è l’ago della bilancia

Secondo voci di intelligence, NetanyahuTrump e Putin stanno cercando di evitare ogni possibile scontro militare nei territori della Siria. Nonostante la situazione appaia molto critica, i leader di Usa, Russia ed Israele sono infatti d’accordo nel ritenere un conflitto diretto potenzialmente disastroso per tutti, con rischi troppo elevati. Sussiste, tuttavia, il problema dell’affidabilità delle fonti: non è ben chiaro cosa possa realmente succedere, e se a queste parole possano corrispondere realmente ai fatti. Pare però che le diplomazie stiano lavorando senza sosta e che gli scontri e gli spostamenti delle truppe mirino anche ad evitare che la guerra possa estendersi senza controllo. Israele ha più volte bombardato le milizie sciite di Hetzbollah finanziate dall’Iran, pressando Putin a costringere l’Iran ad abbandonare la Siria. Ora però non è più così sicuro di avere l’appoggio della comunità internazionale, e neanche di avere quella supremazia militare per poter affrontare il conflitto. Però, pare che l’Iran abbia rinunciato alla creazione di una base militare nel porto siriano di Tartus, notizia che ha fatto tirare un sospiro di sollievo anche agli altri Stati dall’area medio orientale. Osservando la situazione dall’esterno, pare che Trump e Putin siano intenzionati a puntare alla ricerca di una exit strategy che li allontani dalla guerra, e al contempo lavorano per rassicurare Israele. La Russia, in particolare, è ancora alla ricerca di accordi per assicurare una partnership strategica con l’Iran per il controllo dei territori medio orientali. La situazione si rivela però più complessa del previsto: il coinvolgimento della Turchia, impegnata contro le forze siriane, e delle milizie curde non fanno altro che complicare il quadro della situazione Siria, nella quale il ruolo di Israele potrà rivelarsi fondamentale. Nella recentissima visita di Netanyahu a Washington, Israele ha chiesto a Trump di proseguire la politica intrapresa di decertificazione dell’accordo nucleare Iraniano, chiedendo agli Usa una presa di posizione più decisa contro l’Iran.  
Trump: Stop fondi ai palestinesi

Trump: “Stop fondi ai Palestinesi se rifiutano i negoziati con Israele e Gerusalemme”

Donald Trump continua a tenere banco sulla questione Gerusalemme, forte delle risorse economiche americane e dal carattere sanguigno e coriaceo che ha contraddistinto, fino ad oggi, ogni momento del proprio mandato elettorale. Dopo aver alimentato la tensione con il Pakistan, colpevole di “fare il doppio gioco” e di “non fare abbastanza nella lotta al terrorismo”, bloccando 255 milioni di dollari di aiuti, ora sono i Palestinesi ad essere nel mirino del presidente Usa. Paghiamo loro centinaia di milioni di dollari all’anno e non otteniamo alcun apprezzamento o rispetto” ha precisato Trump, direttamente su Twitter. “Non vogliono neppure negoziare un trattato di pace con Israele necessario da molto tempo“. Il Presidente USA dimostra, ancora una volta, di essere in politica estera un vero e proprio “rullo compressore”, mostrando i muscoli al fine di trovare rimedio a situazioni particolarmente scottanti. Non ha mai accettato le provocazioni della Nord Corea e dell’Iran; oggi, però, sono Pakistan e Palestina ad essere criticate senza mezzi termini. Le esternazioni di Trump, così lontane dal fair play diplomatico, mirano a catalizzare l’attenzione mediatica partendo dai social e costringere i palestinesi al tavolo delle trattative, in maniera rapida e con un approccio più favorevole agli Usa. A poco valgono le repliche di Mahmud Abbas, portavoce del presidente della Palestina, e del dirigente dell’Olp Hanan Ashrawi: Trump sembra avere le idee chiare, sa di potersi muovere in una posizione privilegiata (i dollari Usa fanno davvero comodo) ed è pronto a “fare ordine” in medio oriente toccando gli avversari proprio sull’aspetto economico. Contro i Palestinesi, il presidente americano tenta l’ennesimo braccio di ferro sulla politica internazionale. L’obiettivo è quello di mettere fine ai finanziamenti che l’Onu utilizza per fornire aiuti umanitari ai rifugiati palestinesi, con un impegno economico che nel 2016 aveva toccato i 370 milioni di dollari. Dopo le critiche ricevute a seguito della decisione unilaterale della Casa Bianca di spostare la capitale di Israele a Gerusalemme, Trump aveva già decurtato 285 milioni di dollari di finanziamento per il Palazzo di Vetro.
Braccio di ferro Donald Trump - Kim Jong-un, con Putin nel ruolo di mediatore

Braccio di ferro Donald Trump – Kim Jong-un, con Putin nel ruolo di mediatore

Donald Trump e Kim Jong-un proseguono, a distanza, la continua prova di forza che continua a creare una tensione sempre più insostenibile. Mentre Kim mette in orbita il Kwangmyongsong-5“, un moderno satellite per lanciare i missili a lunga gittata; Donald annuncia nuove sanzioni ai funzionari nordcoreani che si occupano del programma missilistico. Il segretario al Tesoro americano, Steven Mnuchin, ha inoltre annunciato ulteriori sanzioni dettate dalla “strategia della tensione” che mira ad isolare la penisola coreana, fino a quando non sarà completamente denuclearizzata. Queste vanno ad aggiungersi a quelle annunciate dalle Nazioni Unite lo scorso venerdì, a seguito dei test balistici intercontinentali (i missili della Corea del Nord sono oggi in grado di raggiungere qualsiasi punto del territorio Usa). Le sanzioni recenti mirano a limitare l’accesso di prodotti petroliferi raffinati e petrolio grezzo, nonché dei guadagni dei lavoratori all’estero. Nelle ultime misure restrittive del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dello scorso 22 dicembre sono state inoltre inserite, tra le altre cose, il divieto di importazione di generi alimentari, apparecchiature elettriche, navi da trasporto, materie prime come legno e magnesite. La novità, in questa situazione, è invece legato al ruolo del leader russo Vladmin Putin, sempre più pronto a proporsi come mediatore in grado di ristabilire l’ordine e trovare un accordo Usa – Corea del Nord. Nel corso di una recente telefonata tra Washington ed il Cremlino, il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov ha ribadito al segretario di Stato usa Rex Tilleson la necessità di ridurre la tensione tra i Paesi. Lavroc ha parlato di come la retorica aggressiva di Washington, e l’aumento della presenza militare nella penisola stiano innalzando la tensione, e questo non è accettabile; ha inoltre rappresentato di come, in questo momento, sia importante “passare dal linguaggio delle sanzioni a quello dei negoziati”. La Russia sembra dunque pronta ad una de-escalation della tensione, ma la volontà di voler mediare tra le parti, come dichiarato dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, implica che entrambe le parti siano disposte ad ascoltare ed accettare.
Gerusalemme Capitale di israele

Gerusalemme è la Capitale di Israele: è la Storia a dirlo

Trump decide di trasferire l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, con un annuncio ufficiale, che ha riscontrato numerose critiche e contestazioni da parte dell’Autorità Palestinese e da altri paesi. La faccenda era già stata annunciata al Presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen ed è stata resa ufficiale con un annuncio che ha destato non pochi problemi, ma perchè tante polemiche quando tutti sappiamo che Gerusalemme è la Capitale di Israele? Con questa decisione, Trump e gli Usa riconoscono, di fatto, Gerusalemme come capitale di Israele: i palestinesi hanno annunciato “3 giorni di collera” ed hanno invitato i palestinesi come tutto il popolo arabo sparso in tutto il mondo a raccogliersi nei pressi delle ambasciate per manifestare il proprio dissenso. La situazione è molto tesa, è a rischio, anche l’incolumità dei diplomatici statunitensi, e quella dei propri familiari in tutti i paesi arabi, dove sono iniziate delle proteste davanti alle sedi diplomatiche USA. La preoccupazione coinvolge ora eventuali reazioni anche da parte della lega araba, che è contraria ad ogni iniziativa che possa portare ad un possibile cambiamento dello status giuridico e politico di Gerusalemme, e che tale scelta possa influenzare i negoziati sul conflitto tra Israele e Palestina. Per Trump Gerusalemme è la capitale di Israele: perché criticarlo? Gerusalemme è, di fatto, la capitale di Israele: non è l’uomo Trump poterlo decidere oggi, ma semplicemente la storia. Negare questo ruolo alla città giudaica significa negare la storia, usi e costumi dell’intera regione, che ha una tradizione antichissima di grandi civiltà. Trump di fatto ha dato seguito concreto ad un atto del Congresso USA risalente al 1995, che mai nessun Presidente per ambiguità ha voluto rendere risolutivo. Nel 1948 il presidente americano Truman fu il primo, tra i leader mondiali, a riconoscere lo Stato di Israele; oggi Trump ha voluto correggere un “errore storico”, riconoscendo alla città di Gerusalemme il ruolo di capitale della nazione di Israele. Trump ha spesso preso decisioni forti, ma mai sicuramente illogiche: soltanto un anno fa, aveva sostituito l’ambasciatore uscente con l’avvocato David Friedman, ed ha deciso sin da subito di prendere le distanze dai suoi predecessori in merito alla questione Israele. Troppo spesso le proprie decisioni sono state apertamente criticate ed è stato considerato impropriamente come un fanatico guerrafondaio, ruolo che forse sarebbe calzato di più a qualche suo predecessore. Non è mai stato un fanatico del “politically correct” poiché, probabilmente anche a causa dei trascorsi imprenditoriali ed economici, è sempre stato uno che punta ad un obiettivo preciso senza girarci troppo intorno. Le “primavere arabe” hanno creato guerra e tensioni che hanno interessato il Medio Oriente e l’Africa Settentrionale causando, tra l’altro, il problema dei flussi migratori verso l’Europa, con cui oggi ci troviamo a dover convivere. È ora di dire basta, e di prendere decisioni importanti e puntuali, proprio come ha fatto oggi il Presidente degli Stati Uniti d’America.

Ispezione Usa a Washington in locali diplomatici della Russia

Come se non bastasse la difficile situazione con la Corea del Nord, è pronta ad accendersi un’altra miccia nei rapporti tra Washington e Mosca. «Una perquisizione all’interno dei locali dei diplomatici Russi, senza la presenza di incaricati ufficiali Russi» spiega li ministero degli esteri di Mosca «è un’azione aggressiva senza precedenti». Soltanto pochi giorni fa, infatti, gli Stati Uniti hanno effettuati alcune perquisizioni presso il Consolato russo di San Francisco e l’ufficio commerciale dell’ambasciata a Washington, in aree ove vale l’immunità. La situazione è ulteriormente degenerata quando i locali, per ordine del governo americano, sono stati liberati dal personale russo. Nella nota di protesta russa si legge che Mosca teme che «le perquisizioni possano essere usate dai servizi d’intelligence statunitensi per organizzare un atto di sabotaggio antirusso, mediante l’introduzione illegale di oggetti compromettenti». In realtà, la tensione tra i Paesi è ancor più alle stelle: si tratta di una “guerra delle ambasciate” già in atto da Putin, che da tempo ha deciso di ridurre il numero degli impiegati delle sedi diplomatiche americane. Una vera e propria ritorsione, che aveva visto espellere ben 755 diplomatici Usa nello scorso luglio. Gli attriti nascono già da prima, quando il Cremlino era stato accusato di interferire nelle elezioni presidenziali americane. È evidente che i due presidenti, forti del loro carisma e dei loro interessi commerciali, siano i principali interpreti, assieme a Kim Jong Un, di un vero e proprio “puzzle geopolitico” che potrebbe, in futuro, cambiare le sorti del mondo. Soltanto pochi mesi fa, tra Russia e America – per bocca di alcuni ex-ministri, si parlava di un “impegno comune” nella lotta contro l’ISIS, di “evitare, in alcun modo, l’utilizzo di armi nucleari”, della possibile “creazione di un nuovo gruppo Nato-Russia per la gestione delle crisi”. Impegni che in alcun modo sono stati presi e che avrebbero potuto, in altri tempi, creare i presupposti per una fattiva collaborazione contro la crisi in Medio Oriente e in Corea.